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ECONOMIA DIGITALE UNA REGOLAMENTAZIONE DA INNOVARE

Rodolfo De Laurentiis

Avvocato

L’idea di un libro sulla regolamentazione dell’economia digitale nasce dalle proprie esperienze professionali e da due altri motivi: l’enorme importanza che essa ha assunto nella nostra quotidianità e la costatazione che necessiti di una regolamentazione più efficace.

La diffusione delle tecnologie digitali ha modificato profondamente la società contemporanea introducendo nuovi modelli di business non più fondati sui pilastri tradizionali dell’economia - capitale e lavoro- ma su elementi immateriali come i dati personali e modificando le modalità relazionali. All’interno dell’economia digitale sono ricomprese sia aziende il cui modello di business è interamente basato sullo sfruttamento di assets intangibili, distribuiti agli acquirenti in formato digitale sia aziende che sfruttano nuovi modelli di business, alcuni dei quali ancora legati alla produzione o alla distribuzione di beni tangibili.

È da sottolineare che diventa sempre più difficile definire i confini dell’economia digitale rispetto a quella dell’economia tradizionale dal momento che quasi ogni azienda integra al proprio interno con sempre maggior forza le nuove tecnologia digitali.

Nel periodo precedente alla crisi finanziaria del 2008 le imprese più grandi erano quelle cosiddette tradizionali. Oggi il quadro è completamente cambiato ed è caratterizzato dalla straordinaria ascesa di aziende tecnologiche come Apple, Microsoft, Google, Amazon. Esse hanno quasi tutte raddoppiate il loro valore e in particolare Amazon e Netflix sono cresciute quasi del 500%. Nel 2021 Apple ha raggiunto i 3000 miliardi di dollari di capitalizzazione mentre la capitalizzazione di tute le società quotate alla borsa di Milano vale 686 miliardi di euro.

Tra le imprese operanti in internet con una valutazione superiore ai 100 miliardi di dollari sei di esse sono americane e quattro sono cinesi, a dimostrazione del fatto che la trasformazione digitale sta generando fenomeni di polarizzazione a livello globale, con un forte ed evidente ritardo europeo. Per recuperare questo ritardo occorre una strategia forte che passa inevitabilmente per un rafforzamento del sistema della ricerca e dell’innovazione italiana ed europea affinchè possa generare conoscenze nelle aree ritenute strategiche.In Europa la Boston consulting stima in 415 miliardi di euro l’impatto economico dello sfruttamento pieno delle potenzialità dell’’economia digitale con un incremento del tasso di crescita del PIL del 18%.

In passato un gruppo multinazionale doveva stabilire una sede operativa nel Paese in cui intendeva operare, ora con un economia basata soprattutto sui servizi possono limitarsi ad una presenza meramente digitale nei singoli Paesi.

Si pensi, per fare un esempio, agli store digitali nei quali i beni ( digitali) acquistati online vengono trasferiti virtualmente con un semplice download.

Il libro evidenzia come taluni ambiti dell’economia digitale si prestano ad essere regolamentati dalle norme che disciplinano le imprese della old economy mentre altri, i più innovativi, necessitano di trovare regole nuove.

È questo il caso, ad esempio, della sharing economy ossia il modello economico basato su un insieme di pratiche di scambio e condivisione sia di beni materiali che di servizi che per il suo carattere innovativo fatica ad essere ricompreso all’interno delle normative attuali.

Basti pensare ad aziende come Uber e Airbnb, considerate le principali artefici del successo della sharing economy, che hanno raggiunto capitalizzazioni superiori a quelle di molte aziende storiche dell’economia tradizionale.

In questo caso, i profili di criticità inerenti la regolamentazione della sharing economy sono plurimi, dalla necessità di sottoporre i fornitori dei servizi delle piattaforme di condivisione agli stessi regimi autorizzatori cui sono sottoposti gli operatori professionali, al trattamento fiscale dei compensi ricevuti dagli stessi providers, al regime di responsabilità delle piattaforme di condivisione.

Le decisioni regolatorie che assumeranno i governi nazionali avranno forti ripercussioni sul futuro della sharing economy perché il modello di business appare fortemente condizionato dalla volontà degli Stati di estendere le numerose regole che disciplinano i mercati tradizionali.

È indubbio che tali aziende abbiano costruito la loro fortuna grazie all’assenza di norme nei rispettivi ambiti di attività o alla dubbia applicabilità della disciplina vigente alle piattaforme. Un estensione delle norme dei settori tradizionali potrebbe compromettere lo sviluppo della sharing economy.

In questa fattispecie è auspicabile la revisione del quadro normativo vigente al fine di ricomprendere al suo interno anche le nuove imprese con regole eque in modo che siano le dinamiche del mercato e non lo Stato a stabilire vincitori e vinti. Potrebbe essere l’occasione per procedere ad una riduzione generalizzata del livello di regolamentazione attuale facendo in modo che le “nuove” e “vecchie” imprese possano competere ad armi pari.

Diverso è il caso della regolamentazione degli aspetti fiscali dell’economia digitale.

L’avvento delle tecnologie digitali ha consentito alle imprese la possibilità di fornire i propri prodotti o servizi in un luogo diverso da quello nel quale sono insediate fisicamente. I dati della Commissione Europea evidenziano negli ultimi anni una crescita annua dei ricavi delle imprese digitali pari al 14%. A fronte di questo incremento il tasso di imposizione effettiva è dell’8,5% ,due volte inferiore a quello applicato alle imprese tradizionali. Prima un gruppo multinazionale doveva stabilire una sede operativa nel Paese in cui intendeva svolgere i propri affari. Tale necessità consentiva agevolmente al singolo Stato di assoggettare a tassazione i redditi prodotti dalla multinazionale all’interno del suo territorio.

Gli attuali progressi tecnologici, la rimozione delle barriere alla libera circolazione dei capitali ed il passaggio ad un economia basata sui servizi hanno consentito ai gruppi multinazionali di operare come imprese globali limitandosi ad una presenza meramente digitale nei singoli Paesi.

L’elevatissimo grado di dematerializzazione dell’industria digitale consente sia di evitare di avere una taxable presence nei territori dove sono operative sia di trasferire i profitti complessivi in capo alle società del gruppo che risiedono in Paesi a regime fiscale più favorevole. Alcuni operatori economici approfittando della inadeguatezza del quadro regolatorio hanno messo in atto pratiche di evasione ed elusione fiscale finalizzate ad abbattere il contributo a favore dell’erario.

In un documento presentato al Senato degli Stati Uniti nel 2012 si stima che le società multinazionali statunitensi abbiano accumulato utili all’estero per 1,7 trilioni di dollari. La sola Apple è stata accusata dal Congresso Americano di aver sottratto tra il 2009 e il 2011 più di 70 miliardi di dollari al fisco statunitense trasferendo la propria tassazione alla società irlandese del gruppo. Negli ultimi anni il tema dell’elusione fiscale ha suscitato una notevole attenzione tra gli Stati nazionali e le principali istituzioni sovranazionali. La comprensione delle principali strategie elusive ha consentito di proporre un set di soluzioni potenzialmente in grado di contrastare le ipotesi più ricorrenti. Solo la convergenza della normativa tributaria a livello sovranazionale è in grado di assicurare il rispetto dei necessari principi di equità, neutralità, efficienza.

La pianificazione fiscale aggressiva è stata sicuramente favorita dagli atteggiamenti non coordinati dei singoli Stati in considerazione dei benefici in termini di sviluppo economico ed occupazionale apportati da queste società all’economia del Paese.

L’introduzione di una clausola generale antiabuso potrebbe essere il provvedimento in grado di assicurare una adeguata efficacia deterrente almeno nei confronti delle pratiche elusive più spregiudicate e anche di evitare una fuga in massa da parte delle imprese estere. Alla politica il compito di determinare il giusto equilibrio tra la necessità di assicurare comunque il gettito fiscale ritenuto equo dalla collettività ed il rispetto della libera iniziativa economica.

In sede G20 i negoziati si sono arenati nel corso del 2020 a causa della richiesta dell’allora segretario al tesoro USA di voler sospendere temporaneamente i lavori sulla global digital tax.

Nel G20 del febbraio 2021, la nuova segretaria al tesoro americano ha lasciato cadere la pregiudiziale sul “safe harbor” (porto sicuro) che sollevava le aziende digitali dall’obbligo di pagare imposte all’estero. Nel G20 del luglio 2021 invece, svoltosi a Venezia sotto la presidenza di turno italiana, si è raggiunto un accordo “su una più stabile ed equa tassazione internazionale”. Il documento rinvia alla proposta fatta in sede OCSE articolata su due elementi.

Il primo prevede per le grandi multinazionali con un fatturato almeno di 20 miliardi e con profitti superiori al 10% dei ricavi una tassazione nei Paesi dove operano con un ‘aliquota compresa tra il 20 ed il 30%.

Il secondo prevede per le multinazionali con un fatturato almeno di 750 milioni di euro una tassazione minima del 15%.

Questa proposta, qualora venisse definitivamente approvata, produrrebbe due conseguenze .

Da una parte i Paesi che applicano un prelievo inferiore (come l’Irlanda con il 12,5 %) dovrebbero riconoscere la differenza ai Paesi dove la multinazionale vende beni o servizi e dall’altra verrebbe meno la loro convenienza a dirottare gli utili verso i paradisi fiscali.

Questi due aspetti dell’economia digitale -sharing economy e l’imposizione fiscale- denotano la necessità di procedere rapidamente ad un’innovazione della sua regolamentazione che può tradursi a volte in una riduzione dell’apparato legislativo e a volte in un ampliamento delle norme. È evidente, inoltre, che di fronte alla dematerializzazione dell’economia digitale che rende inefficace qualsiasi intervento normativo dei singoli stati occorre affidare agli organismi internazionali il compito di definire un quadro regolamentare efficace, coerente ed equo.

Occorre superare l’attuale impasse rappresentata da una legislazione, in perenne rincorsa tecnologica, del tutto inadeguata a coniugare le legittime aspettative degli operatori -nuovi e tradizionali- di competere secondo regole eque, con le istanze dei consumatori di poter usufruire dei servizi offerti dalle imprese digitali.

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ECONOMIA DIGITALE UNA REGOLAMENTAZIONE DA INNOVARE DI RODOLFO DE LAURENTIIS

EDITO DA GIAPPICHELLI , CASA EDITRICE DI TORINO I OCCASIONE DEI SUOI 100 ANNI

La diffusione delle tecnologie digitali ha profondamente cambiato la società contemporanea e l’obiettivo del presente volume non è quello di fornire una risposta a tutti i quesiti giuridici sollevati dall’economia digitale – obiettivo fin troppo ambizioso- ma è quello di ribadire la necessità di una sua regolamentazione.

Da una parte , c’è chi propone, sulla scorta di quanto accaduto per la Rete, cresciuta sostanzialmente in assenza di regole esterne, di evitare di imbrigliare eccessivamente le aziende digitali, mantenendo le norme attuali e favorendo modelli di autoregolamentazione.

Dall’altra, vi è chi sollecita l’emanazione di normative specifiche in modo da colmare il divario esistente tra la velocità con cui avvengono i cambiamenti tecnologici e la difficoltà di tradurli in un perimetro di leggi.

Il presente volume vuole solo indicare l’approccio regolamentare più idoneo ad assecondare lo sviluppo dell’economia digitale.

RODOLFO DE LAURENTIIS

* Avvocato, professore di Diritto dei Media. È stato presidente di alcune società, parlamentare alla Camera dei Deputati per due legislature, consigliere di amministrazione della Rai per due mandati, nonché presidente di Confindustria radiotelevisione. È autore di alcune pubblicazioni in tema di Diritto dei Media.

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